BRANO N.1 - Romildo e la Giubiana (1881)
Il fuoco illumina la sera di gennaio. Nonostante il freddo i seregnesi sono tutti fuori, in piazza. Soprattutto i bambini. Romildo in prima fila guarda affascinato le fiamme che lambiscono un fantoccio vestito di stracci in forma di donna, anzi di vecchia strega. Gambe lunghe lunghe, naso adunco, calze rosse, la Giubiana simboleggia da secoli l’inverno che se ne va e ora si è trasformata in una fiaba un po’ inquietante.
Rosa Mariani tiene per mano i due figli più piccoli che si aggrappano alla sottana.
“Hai preparato il risotto, mamma?” trema Giuseppina. A cinque anni sa che la Giubiana vive nei boschi ma la sera si aggira fino in paese alla ricerca di bimbetti da mangiare. Anche se la piazza su cui si affaccia il caseggiato dei Mariani è in pieno centro, nessuno può stare al sicuro. Il paese è piccolo: campi e vigne cominciano poco più in là. Tre falcate e la Giubiana scavalca le basse case che dividono il borgo dai campi. Per questo le furbe mamme lasciano un piatto di risotto alla finestra: attirata dal profumo di cipolla e zafferano, la Giubiana divora tutto e si addormenta, così al mattino la luce del sole la polverizza.
“Ancora credi a queste storie, Pinina? Roba vecchia….basta paura! Sono secoli che ci spaventano, è ora di finirla!” Francesco non voleva neanche venirci, in piazza. Ha ventun anni e altro da fare, ma i fratellini lo hanno implorato. Un uomo ci vuole in queste occasioni e il papà Giovanni è rimasto a casa. Ha sessant’anni e non sta benissimo, dopo una vita in bottega a respirare fumi malsani.
Da qualche giorno grandi e bambini ammucchiavano in piazza la legna per il falò della Giubiana in una catasta altissima e Romildo non vedeva l’ora del grande momento. Però in pochi minuti il fantoccio di paglia si riduce a un mucchio di cenere spenta sotto il fumo nero. Inoffensiva. Inutile.
Romildo rabbrividisce e tossicchia; è perplesso e quasi deluso. Lui di fiamme così alte non ne aveva mai viste. Nella bottega di Giovanni, fabbro ferraio come il nonno e il bisnonno, il fuoco è un’altra cosa. Certo, è potente; scalda il ferro che diventa rosso e poi il papà lo mette sull’incudine. Lo modella con i suoi attrezzi. Con cura e attenzione, trasforma il metallo in mille modi diversi. Il fuoco è magico e non gli ha mai fatto davvero paura. Anzi, se lo rispetti e lo tieni a giusta distanza, è un prezioso amico.
“Di che cosa è fatto il fuoco, Francesco?”
Lui medita un po’. “Non lo so, ma so a che cosa serve. A distruggere tutto quello che non serve più” dice deciso. Romildo ragiona: “Però scalda, cuoce, aiuta. Non è cattivo, il fuoco,….” “E certo! Chi distrugge non è cattivo, neanche il fuoco; tutto dipende da ciò che si brucia, e dal motivo per cui lo si fa. Ci sono cose che devono essere distrutte, perchè tutti stiano meglio”. Romildo non capisce e fa per ribattere, ma Rosa lo trascina via “Nemm in cà, che se no ti ammali ancora..”
Rosa lancia a Francesco un’occhiata storta. Di figli balenghi gliene basta uno; ci manca solo che il baco della rivoluzione metta radici anche nella mente di quelli piccoli.
Il fuoco illumina la sera di gennaio. Nonostante il freddo i seregnesi sono tutti fuori, in piazza. Soprattutto i bambini. Romildo in prima fila guarda affascinato le fiamme che lambiscono un fantoccio vestito di stracci in forma di donna, anzi di vecchia strega. Gambe lunghe lunghe, naso adunco, calze rosse, la Giubiana simboleggia da secoli l’inverno che se ne va e ora si è trasformata in una fiaba un po’ inquietante.
Rosa Mariani tiene per mano i due figli più piccoli che si aggrappano alla sottana.
“Hai preparato il risotto, mamma?” trema Giuseppina. A cinque anni sa che la Giubiana vive nei boschi ma la sera si aggira fino in paese alla ricerca di bimbetti da mangiare. Anche se la piazza su cui si affaccia il caseggiato dei Mariani è in pieno centro, nessuno può stare al sicuro. Il paese è piccolo: campi e vigne cominciano poco più in là. Tre falcate e la Giubiana scavalca le basse case che dividono il borgo dai campi. Per questo le furbe mamme lasciano un piatto di risotto alla finestra: attirata dal profumo di cipolla e zafferano, la Giubiana divora tutto e si addormenta, così al mattino la luce del sole la polverizza.
“Ancora credi a queste storie, Pinina? Roba vecchia….basta paura! Sono secoli che ci spaventano, è ora di finirla!” Francesco non voleva neanche venirci, in piazza. Ha ventun anni e altro da fare, ma i fratellini lo hanno implorato. Un uomo ci vuole in queste occasioni e il papà Giovanni è rimasto a casa. Ha sessant’anni e non sta benissimo, dopo una vita in bottega a respirare fumi malsani.
Da qualche giorno grandi e bambini ammucchiavano in piazza la legna per il falò della Giubiana in una catasta altissima e Romildo non vedeva l’ora del grande momento. Però in pochi minuti il fantoccio di paglia si riduce a un mucchio di cenere spenta sotto il fumo nero. Inoffensiva. Inutile.
Romildo rabbrividisce e tossicchia; è perplesso e quasi deluso. Lui di fiamme così alte non ne aveva mai viste. Nella bottega di Giovanni, fabbro ferraio come il nonno e il bisnonno, il fuoco è un’altra cosa. Certo, è potente; scalda il ferro che diventa rosso e poi il papà lo mette sull’incudine. Lo modella con i suoi attrezzi. Con cura e attenzione, trasforma il metallo in mille modi diversi. Il fuoco è magico e non gli ha mai fatto davvero paura. Anzi, se lo rispetti e lo tieni a giusta distanza, è un prezioso amico.
“Di che cosa è fatto il fuoco, Francesco?”
Lui medita un po’. “Non lo so, ma so a che cosa serve. A distruggere tutto quello che non serve più” dice deciso. Romildo ragiona: “Però scalda, cuoce, aiuta. Non è cattivo, il fuoco,….” “E certo! Chi distrugge non è cattivo, neanche il fuoco; tutto dipende da ciò che si brucia, e dal motivo per cui lo si fa. Ci sono cose che devono essere distrutte, perchè tutti stiano meglio”. Romildo non capisce e fa per ribattere, ma Rosa lo trascina via “Nemm in cà, che se no ti ammali ancora..”
Rosa lancia a Francesco un’occhiata storta. Di figli balenghi gliene basta uno; ci manca solo che il baco della rivoluzione metta radici anche nella mente di quelli piccoli.
BRANO N.2 - Cena dopo la Giubiana (1881)
La piazza è proprio nel cuore della cittadina, all’incrocio di quattro strade dove passano carri e calessi. La casa di Giovanni Mariani, fabbro ferraio come suo padre e suo nonno, è all’angolo con la via che porta fuori paese, verso Meda. Due piani, cortile, stalle e botteghe. Dignitosa ma certo non di lusso, come quella dei nobili che si affaccia sull’altro lato. Nel caseggiato abitano anche i cugini di Giovanni, penultimo di sette figli, quasi tutti fabbri ferrai, e ovviamente una sfilza di bambini e ragazzi di tutte le età. Questi Mariani sono detti “Ferescin”; a Seregno i cognomi sono sempre quelli e ci si distingue per soprannome: Tumasitt, Ninetta, Napuleun.
Il risotto è pronto. Rosa lo rimesta sul fuoco del camino acceso e il calore si spande intorno al tavolo. “Dov’eri Antonio?” chiede al secondogenito. Quattordici anni, è sempre in giro. Nè bambino nè adulto, con un piede già nel mondo dei grandi, è il capo della banda dei ragazzini della casa di corte e in famiglia sta cercando di trovare il suo posto.
“Ero stanco, mamma. Ho spaccato il coke fino a sera”.
Come tutti i ragazzini, Antonio lavora: aiuta il papà in bottega. Finite con fatica le elementari, ora frequenta la scuola di disegno professionale che il maestro Antonio Perego ha aperto proprio sotto casa, nei suoi locali. Coi suoi baffoni antiquati, Perego gli è sempre stato simpatico. E’ amico di famiglia da una vita e ha sempre spronato i bambini a ravanare con le mani: tagliare il legno, incastrare asticelle, costruire qualcosa, qualunque cosa, purché sia utile e possibilmente anche bello. Antonio impara il mestiere del fabbro e si occupa dei compiti più semplici come ridurre in piccoli frammenti l’ammasso nero di carbon coke, carburante per la forgia dove il ferro si trasforma.
“E infatti sei ancora lercio; vatti a lavare prima di venire a tavola”, osserva Rosa.
“Tra pochi anni non servirà più spaccare il carbone” Francesco ha lo sguardo perso verso un futuro che solo lui vede “Ci saranno macchine che fanno i lavori pesanti al posto degli uomini. Le ho viste! E saranno sempre più grandi e più potenti. Così non faremo più questa vita da bestie.”
“Le hai viste davvero?” Romildo resta con il cucchiaio a mezz’aria, i grani di risotto minuscole pepite d’oro sul mento. “Certo! e tra poco ti porterò col treno a Milano in un posto enorme dove vedremo tutti i miracoli delle macchine moderne”
L’Esposizione Industriale aprirà in maggio. Ne parlano tutti, alla Società Operaia di Mutuo Soccorso che Francesco frequenta dopo il lavoro. E’ da lì che arrivano le novità: lo scopo non è solo il reciproco aiuto tra lavoratori, ma anche la diffusione dell’istruzione delle famiglie e alcune iniziative culturali. Coro, musica e gite in città per capire qualcosa sul futuro che arriva. I giovani, da sempre, sentono i fervori del nuovo e non vedono l’ora che qualcosa cambi davvero.
“Vedi Romildo, la bottega di papà è piccola e le macchine non ci stanno.. presto ci saranno officine grandiose che ricoprono vasti terreni, con alti comignoli e grandi finestroni con aria e luce e stanzoni enormi dove i lavoratori potranno costruire insieme cose meravigliose con queste grandi macchine che faranno fatica al posto loro. Una macchina fa il lavoro di dieci uomini!”
“I tuoi sogni sono come gli stracci della Giubiana, fanno scena ma bruciano in fretta” Giovanni vorrebbe crederci, a questo futuro, ma dubita di arrivare a vederlo.
“Anche papà fabbrica cose bellissime! Il Pietrin è venuto ieri a pagare e ha detto che la terra non si attacca più all’aratro e adesso fa meno fatica” A Romildo piace rendersi utile e fa piccole commissioni, fino alle cascine dove consegna attrezzi nuovi o aggiustati dal papà.
“E che cosa vuoi che sia, una nuova ghisa che scivola meglio..cambia poco, sempre uomo e bestie fanno fatica. Invece ci saranno macchine che tirano l’aratro al posto dei cavalli.”
“Macchine, macchine! Ci vuol sempre qualcuno che le comanda” Rosa non ama stare zitta. A Seregno le dicono che ha la lingua lunga, come tutti i mezzi foresti. Sua mamma e i suoi nonni, mercanti di tessuti, erano bergamaschi delle valli e in casa loro era una chiacchiera continua, con una cadenza dolce e diversa dal dialetto sdrucciolo di qua; invece in casa Mariani si lavora tanto ma si parla poco. I ferreè, curvi sul loro banco di ferro, non han tempo per altro che la fusina.
“La macchina libererà il lavoratore dalla schiavitù dei padroni. Il progresso ci aiuterà! Cosa vuoi che faccia il fabbro, da solo, in bottega? Ci vuole una fabbrica, un’industria! Tanti operai che lavorano tutti assieme, allora sì che potranno costruire le macchine… una vera officina, come il cotonificio Kramer.. ricordi Romildo che l’abbiamo vista?”
Romildo ricorda la costruzione grigia lungo il fiume Lambro, dove la domenica da la caccia alle rane. Di gente non ne ha vista, ma là dentro ce ne deve stare tanta. E’ enorme.
“Anche lì c’è il fuoco, Francesco? Quanto è grande la fucina?” Francesco gli prende la faccina tra le mani. Romildo è piccolo, quasi gracile. Patisce il freddo e a scuola va poco, anche se volentieri. E’ spesso malato e sta sempre in casa, tra i piedi dei grandi. Ascolta, osserva, impara.
“Il fuoco…arriverà a trasformare tutto. Distrugge tutto ciò che non va più bene; bruceranno le case e ne faranno di nuove, alte, belle, moderne. Un mondo nuovo!”
Romildo si perde a guardare il camino. Le fiamme disegnano strane forme che si agitano impazzite. “La Giubiana è vecchia e cattiva ed è bruciata..” marmotta tra sé…
”Che tradizione stupida! I bambini non devono ascoltare vecchie fiabe, e poi le donne non si bruciano, si rispettano! Una donna può fare tutto quello che fa un uomo, anche votare.”
Alla società operaia Francesco discute spesso di queste cose, che fanno arrabbiare Rosa. Si dice che presto il governo dovrà modificare la legge elettorale che esclude dal voto chi paga meno di 40 lire di tasse, cioè quasi tutti.
“Ancora con questa storia! Non votano che i benestanti, figuriamoci le donne! Te se dré a dà i numer” A Rosa i cambiamenti non piacciono. Nascondono insidie, fregature neanche troppo nascoste. Ricorda le feste per l’unità d’Italia, lei sposina con Francesco appena nato. Doveva cambiare tutto: scuole, ospedali, giustizia, più soldi per tutti. Tutte balle: a Seregno persino l’acqua è ancora un problema per cui si litiga da secoli.
“Nemm in lecc, và, che domani ci si alza presto” sospira. Romildo e Giuseppina si avviano per le scale.
“La Giubiana non viene vero? Ormai stata bruciata…” la vocina di bimba si sente appena. Giuseppina un po’ di paura ce l’ha. Il fuoco è una cosa da maschi; quando va in bottega, a lei e alle altre bambine è vietato avvicinarsi alla fucina e non ha mai ben capito come funziona. Sa solo che scotta e può far male.
“Il fuoco è cattivo, Romildo?” Lui ci pensa su, solo un attimo. “Il fuoco brucia le stoppie vecchie nei campi, così si possono riseminare. Non è cattivo. Il fuoco scalda, anche il sole ci scalda”
“Ma d’estate c’è troppo caldo! E nell’orto si secca tutto”
Romildo riflette. “E’ vero, troppo non va bene, ogni tanto ci vuole la pioggia. Ma se piovesse sempre, sai che tristezza! E che disastro! L’anno scorso era tutto marcito.”
“Tra fuoco e pioggia, chi vince?” Giuseppina non sa di quale elemento aver più paura.
“Nessuno, Pinina. Ci vogliono tutti e due. Anzi, non possono stare uno senza l’altro. Il fuoco da solo distrugge tutto. L’acqua da sola fa marcire le cose. Le piante crescono solo se ci sono tutti e due.”
Cosa è bene? Cosa è male? Romildo non capisce perchè bisogna scegliere tra due cose che sembrano opposte, ma non lo sono.
“Le cose e le persone non sono buone o cattive: sono solo diverse. Sembrano nemiche, ma hanno bisogno l’una dell’altra.”
Lui non lo sa, ma questo sarà il principio che ispirerà tutta la sua vita. Dualismo complementare, non oppositivo. Il bilanciamento armonico tra Yin e Yang, secondo gli orientali. A Seregno, a fine Ottocento, nessuno ne ha mai sentito parlare, neanche i mercanti di seta che vanno in Giappone a cercare nuove specie di bachi resistenti alle malattie.
Ma i principi essenziali della vita travalicano epoche e culture. Sono forze universali che esistono da sempre e attecchiscono dove trovano terreno fertile. Anche nella mente vivace di un bambino malaticcio che sta per restare orfano.
La piazza è proprio nel cuore della cittadina, all’incrocio di quattro strade dove passano carri e calessi. La casa di Giovanni Mariani, fabbro ferraio come suo padre e suo nonno, è all’angolo con la via che porta fuori paese, verso Meda. Due piani, cortile, stalle e botteghe. Dignitosa ma certo non di lusso, come quella dei nobili che si affaccia sull’altro lato. Nel caseggiato abitano anche i cugini di Giovanni, penultimo di sette figli, quasi tutti fabbri ferrai, e ovviamente una sfilza di bambini e ragazzi di tutte le età. Questi Mariani sono detti “Ferescin”; a Seregno i cognomi sono sempre quelli e ci si distingue per soprannome: Tumasitt, Ninetta, Napuleun.
Il risotto è pronto. Rosa lo rimesta sul fuoco del camino acceso e il calore si spande intorno al tavolo. “Dov’eri Antonio?” chiede al secondogenito. Quattordici anni, è sempre in giro. Nè bambino nè adulto, con un piede già nel mondo dei grandi, è il capo della banda dei ragazzini della casa di corte e in famiglia sta cercando di trovare il suo posto.
“Ero stanco, mamma. Ho spaccato il coke fino a sera”.
Come tutti i ragazzini, Antonio lavora: aiuta il papà in bottega. Finite con fatica le elementari, ora frequenta la scuola di disegno professionale che il maestro Antonio Perego ha aperto proprio sotto casa, nei suoi locali. Coi suoi baffoni antiquati, Perego gli è sempre stato simpatico. E’ amico di famiglia da una vita e ha sempre spronato i bambini a ravanare con le mani: tagliare il legno, incastrare asticelle, costruire qualcosa, qualunque cosa, purché sia utile e possibilmente anche bello. Antonio impara il mestiere del fabbro e si occupa dei compiti più semplici come ridurre in piccoli frammenti l’ammasso nero di carbon coke, carburante per la forgia dove il ferro si trasforma.
“E infatti sei ancora lercio; vatti a lavare prima di venire a tavola”, osserva Rosa.
“Tra pochi anni non servirà più spaccare il carbone” Francesco ha lo sguardo perso verso un futuro che solo lui vede “Ci saranno macchine che fanno i lavori pesanti al posto degli uomini. Le ho viste! E saranno sempre più grandi e più potenti. Così non faremo più questa vita da bestie.”
“Le hai viste davvero?” Romildo resta con il cucchiaio a mezz’aria, i grani di risotto minuscole pepite d’oro sul mento. “Certo! e tra poco ti porterò col treno a Milano in un posto enorme dove vedremo tutti i miracoli delle macchine moderne”
L’Esposizione Industriale aprirà in maggio. Ne parlano tutti, alla Società Operaia di Mutuo Soccorso che Francesco frequenta dopo il lavoro. E’ da lì che arrivano le novità: lo scopo non è solo il reciproco aiuto tra lavoratori, ma anche la diffusione dell’istruzione delle famiglie e alcune iniziative culturali. Coro, musica e gite in città per capire qualcosa sul futuro che arriva. I giovani, da sempre, sentono i fervori del nuovo e non vedono l’ora che qualcosa cambi davvero.
“Vedi Romildo, la bottega di papà è piccola e le macchine non ci stanno.. presto ci saranno officine grandiose che ricoprono vasti terreni, con alti comignoli e grandi finestroni con aria e luce e stanzoni enormi dove i lavoratori potranno costruire insieme cose meravigliose con queste grandi macchine che faranno fatica al posto loro. Una macchina fa il lavoro di dieci uomini!”
“I tuoi sogni sono come gli stracci della Giubiana, fanno scena ma bruciano in fretta” Giovanni vorrebbe crederci, a questo futuro, ma dubita di arrivare a vederlo.
“Anche papà fabbrica cose bellissime! Il Pietrin è venuto ieri a pagare e ha detto che la terra non si attacca più all’aratro e adesso fa meno fatica” A Romildo piace rendersi utile e fa piccole commissioni, fino alle cascine dove consegna attrezzi nuovi o aggiustati dal papà.
“E che cosa vuoi che sia, una nuova ghisa che scivola meglio..cambia poco, sempre uomo e bestie fanno fatica. Invece ci saranno macchine che tirano l’aratro al posto dei cavalli.”
“Macchine, macchine! Ci vuol sempre qualcuno che le comanda” Rosa non ama stare zitta. A Seregno le dicono che ha la lingua lunga, come tutti i mezzi foresti. Sua mamma e i suoi nonni, mercanti di tessuti, erano bergamaschi delle valli e in casa loro era una chiacchiera continua, con una cadenza dolce e diversa dal dialetto sdrucciolo di qua; invece in casa Mariani si lavora tanto ma si parla poco. I ferreè, curvi sul loro banco di ferro, non han tempo per altro che la fusina.
“La macchina libererà il lavoratore dalla schiavitù dei padroni. Il progresso ci aiuterà! Cosa vuoi che faccia il fabbro, da solo, in bottega? Ci vuole una fabbrica, un’industria! Tanti operai che lavorano tutti assieme, allora sì che potranno costruire le macchine… una vera officina, come il cotonificio Kramer.. ricordi Romildo che l’abbiamo vista?”
Romildo ricorda la costruzione grigia lungo il fiume Lambro, dove la domenica da la caccia alle rane. Di gente non ne ha vista, ma là dentro ce ne deve stare tanta. E’ enorme.
“Anche lì c’è il fuoco, Francesco? Quanto è grande la fucina?” Francesco gli prende la faccina tra le mani. Romildo è piccolo, quasi gracile. Patisce il freddo e a scuola va poco, anche se volentieri. E’ spesso malato e sta sempre in casa, tra i piedi dei grandi. Ascolta, osserva, impara.
“Il fuoco…arriverà a trasformare tutto. Distrugge tutto ciò che non va più bene; bruceranno le case e ne faranno di nuove, alte, belle, moderne. Un mondo nuovo!”
Romildo si perde a guardare il camino. Le fiamme disegnano strane forme che si agitano impazzite. “La Giubiana è vecchia e cattiva ed è bruciata..” marmotta tra sé…
”Che tradizione stupida! I bambini non devono ascoltare vecchie fiabe, e poi le donne non si bruciano, si rispettano! Una donna può fare tutto quello che fa un uomo, anche votare.”
Alla società operaia Francesco discute spesso di queste cose, che fanno arrabbiare Rosa. Si dice che presto il governo dovrà modificare la legge elettorale che esclude dal voto chi paga meno di 40 lire di tasse, cioè quasi tutti.
“Ancora con questa storia! Non votano che i benestanti, figuriamoci le donne! Te se dré a dà i numer” A Rosa i cambiamenti non piacciono. Nascondono insidie, fregature neanche troppo nascoste. Ricorda le feste per l’unità d’Italia, lei sposina con Francesco appena nato. Doveva cambiare tutto: scuole, ospedali, giustizia, più soldi per tutti. Tutte balle: a Seregno persino l’acqua è ancora un problema per cui si litiga da secoli.
“Nemm in lecc, và, che domani ci si alza presto” sospira. Romildo e Giuseppina si avviano per le scale.
“La Giubiana non viene vero? Ormai stata bruciata…” la vocina di bimba si sente appena. Giuseppina un po’ di paura ce l’ha. Il fuoco è una cosa da maschi; quando va in bottega, a lei e alle altre bambine è vietato avvicinarsi alla fucina e non ha mai ben capito come funziona. Sa solo che scotta e può far male.
“Il fuoco è cattivo, Romildo?” Lui ci pensa su, solo un attimo. “Il fuoco brucia le stoppie vecchie nei campi, così si possono riseminare. Non è cattivo. Il fuoco scalda, anche il sole ci scalda”
“Ma d’estate c’è troppo caldo! E nell’orto si secca tutto”
Romildo riflette. “E’ vero, troppo non va bene, ogni tanto ci vuole la pioggia. Ma se piovesse sempre, sai che tristezza! E che disastro! L’anno scorso era tutto marcito.”
“Tra fuoco e pioggia, chi vince?” Giuseppina non sa di quale elemento aver più paura.
“Nessuno, Pinina. Ci vogliono tutti e due. Anzi, non possono stare uno senza l’altro. Il fuoco da solo distrugge tutto. L’acqua da sola fa marcire le cose. Le piante crescono solo se ci sono tutti e due.”
Cosa è bene? Cosa è male? Romildo non capisce perchè bisogna scegliere tra due cose che sembrano opposte, ma non lo sono.
“Le cose e le persone non sono buone o cattive: sono solo diverse. Sembrano nemiche, ma hanno bisogno l’una dell’altra.”
Lui non lo sa, ma questo sarà il principio che ispirerà tutta la sua vita. Dualismo complementare, non oppositivo. Il bilanciamento armonico tra Yin e Yang, secondo gli orientali. A Seregno, a fine Ottocento, nessuno ne ha mai sentito parlare, neanche i mercanti di seta che vanno in Giappone a cercare nuove specie di bachi resistenti alle malattie.
Ma i principi essenziali della vita travalicano epoche e culture. Sono forze universali che esistono da sempre e attecchiscono dove trovano terreno fertile. Anche nella mente vivace di un bambino malaticcio che sta per restare orfano.
BRANO N.3 - Romildo malato e il medico seregnese dott. Luigi Ripa (1881)
“Febbre tifoide” Il dottor Luigi Ripa ha il viso serio mentre chiude la porta della stanza dove Romildo sonnecchia, ancora intontito.
Mentre scende in strada, lo ferma Francesco. Si conoscono bene. Il medico è stato il primo fondatore della Società Operaia di Mutuo Soccorso che il ragazzo frequenta. Luigi vorrebbe curare anche i mali della società, oltre a quelli delle persone.
“La solita storia: manca l’acqua, non ci si lava.. Ed ecco il tifo, le epidemie. L’igiene!” Il dottore incurva le spalle, scoraggiato “La gente non capisce che senza delle buone regole di pulizia quotidiana i bambini continueranno ad ammalarsi e morire…queste malattie si potrebbero evitare“
Il medico passa a Francesco il foglio con la prescrizione “Vai subito in farmacia; polvere di chinino, una “sangueta” e vedrai che Romildo domani starà meglio”. Francesco si avvia e accompagna il medico per un tratto di strada. Poca gente, qualche carro. E’ un venerdì freddo e piovoso.
“Non gli piacerà..brontola sempre quando gli attacchiamo la sanguisuga”
Il medico rimugina, come tra sé. “Ho appena visitato una bambina malata di cuore. Otto anni, lavora in filanda. Dodici ore al giorno! Finché non ci sarà una legge che limita il lavoro dei bambini e delle donne in fabbrica, non saremo un paese civile. Fatta l’Italia, bisogna fare gli italiani attraverso la loro tutela sanitaria.” Francesco ascolta pensieroso.
“E nelle campagne è anche peggio! Qui, almeno, io posso visitare i malati e c’è una farmacia vicina”.
“E’ vero, ma cosa si può fare, dottore?” Luigi guarda il ragazzo. A sessant’anni, non ha rinunciato all’utopia di diventare deputato, anche se molti a Seregno lo prendono in giro per questo. Manie di grandezza, dicono. Assurda ambizione. Siamo in provincia e la capitale è lontanissima.
“Tu sei giovane e puoi ancora cambiare il mondo. Bisogna andare a Roma, fare nuove leggi. Curare e prevenire, rimuovere le cause esterne delle malattie per migliorare la qualità della vita della gente. C’è troppa ignoranza, troppa miseria. La gente era schiava nei campi, ora è schiava in fabbrica.”
“Sì ma le macchine miglioreranno tutto! Si farà meno fatica, si lavorerà meno. I motori! L’elettricità!”
Luigi tace. “Vai in farmacia, Francesco. Romildo ha bisogno di cure”.
Sono gli ultimi anni di vita e di lavoro del medico idealista seregnese, che non farà in tempo a vedere realizzate le innovazioni che sognava. Solo nel 1887 Seregno avrà finalmente un acquedotto.
“Febbre tifoide” Il dottor Luigi Ripa ha il viso serio mentre chiude la porta della stanza dove Romildo sonnecchia, ancora intontito.
Mentre scende in strada, lo ferma Francesco. Si conoscono bene. Il medico è stato il primo fondatore della Società Operaia di Mutuo Soccorso che il ragazzo frequenta. Luigi vorrebbe curare anche i mali della società, oltre a quelli delle persone.
“La solita storia: manca l’acqua, non ci si lava.. Ed ecco il tifo, le epidemie. L’igiene!” Il dottore incurva le spalle, scoraggiato “La gente non capisce che senza delle buone regole di pulizia quotidiana i bambini continueranno ad ammalarsi e morire…queste malattie si potrebbero evitare“
Il medico passa a Francesco il foglio con la prescrizione “Vai subito in farmacia; polvere di chinino, una “sangueta” e vedrai che Romildo domani starà meglio”. Francesco si avvia e accompagna il medico per un tratto di strada. Poca gente, qualche carro. E’ un venerdì freddo e piovoso.
“Non gli piacerà..brontola sempre quando gli attacchiamo la sanguisuga”
Il medico rimugina, come tra sé. “Ho appena visitato una bambina malata di cuore. Otto anni, lavora in filanda. Dodici ore al giorno! Finché non ci sarà una legge che limita il lavoro dei bambini e delle donne in fabbrica, non saremo un paese civile. Fatta l’Italia, bisogna fare gli italiani attraverso la loro tutela sanitaria.” Francesco ascolta pensieroso.
“E nelle campagne è anche peggio! Qui, almeno, io posso visitare i malati e c’è una farmacia vicina”.
“E’ vero, ma cosa si può fare, dottore?” Luigi guarda il ragazzo. A sessant’anni, non ha rinunciato all’utopia di diventare deputato, anche se molti a Seregno lo prendono in giro per questo. Manie di grandezza, dicono. Assurda ambizione. Siamo in provincia e la capitale è lontanissima.
“Tu sei giovane e puoi ancora cambiare il mondo. Bisogna andare a Roma, fare nuove leggi. Curare e prevenire, rimuovere le cause esterne delle malattie per migliorare la qualità della vita della gente. C’è troppa ignoranza, troppa miseria. La gente era schiava nei campi, ora è schiava in fabbrica.”
“Sì ma le macchine miglioreranno tutto! Si farà meno fatica, si lavorerà meno. I motori! L’elettricità!”
Luigi tace. “Vai in farmacia, Francesco. Romildo ha bisogno di cure”.
Sono gli ultimi anni di vita e di lavoro del medico idealista seregnese, che non farà in tempo a vedere realizzate le innovazioni che sognava. Solo nel 1887 Seregno avrà finalmente un acquedotto.
BRANO N.4. Incontro notturno a Seregno tra Francesco Mariani e gli anarchici, alla Locanda dell'Angelo
Cinque del mattino. Due ombre si staccano dalla lunga fila di carri partiti nelle prime ore del giorno dalle colline e dal lago per portare merci e derrate in città, a Milano.
Seregno è tappa obbligata prima di affrontare l’ultimo tratto di strada; una sosta veloce, anche solo per abbeverare i cavalli. Pochi lampioni illuminano le strade, una delle prime novità dopo l’unità d’Italia; prima, sotto gli austriaci, il buio favoriva furti e sottrazioni, in questo luogo di commercio e traffici non sempre chiari, incluso il contrabbando dalla Svizzera: forse da qui deriva il detto che un seregnese quando si sveglia ha già imbrogliato sette persone.
Il Longoni, proprietario della Locanda dell’Angelo, non fa una piega quando entrano i due sconosciuti. E’ abituato a non fare troppe domande. Gli uomini si siedono all’angolo, vicino al camino, avvolti nei mantelli scuri appena coperti da una brina lieve che scompare presto al tepore del fuoco.
Francesco Mariani non li nota neppure quando entra e si accosta al bancone, gli occhi ancora appannati di sonno. “Già in giro, Francesco?” Ignazio Longoni ha vent’anni e dà una mano in locanda nelle ore morte, prima di andare al lavoro in filanda. “Ho da fare le consegne in cascina. Ma dammi qualcosa di caldo, và, che la strada è lunga. E speriamo che il Pietrin mi paghi, stavolta”
“Eh, sì… fan fatica i contadini di questi tempi.. Ne sono arrivati altri, in filanda; lasciano i campi alle donne” Giustappunto un paio di loro, appena entrati, raccontano dei prezzi del grano che continuano a scendere, della malattia della vite, dei padroni che chiedono ai fittavoli sempre più giornate di lavoro gratuito e polli e uova, per compensare il calo delle rendite agrarie. In cascina si sta sempre peggio e qualcuno pensa anche di emigrare. Per esempio in America, che esporta cereali a basso costo ed importa esseri umani. Milioni di europei sono partiti, da metà secolo a oggi.
Presto i due sconosciuti si infilano nel discorso; parlano a bassa voce, con un accento diverso, mai sentito da queste parti.
“Niente cambierà davvero finché i contadini saranno schiavi dei padroni” dice quello con la barba e gli occhialini rotondi. Francesco si beve ogni parola, mentre Carlo Cafiero descrive l’avventura di quattro anni prima a San Lupo, la cattura, il processo e l’assoluzione che descrive come una vittoria dell’ideale anarchico.
“Com’è da queste parti? I contadini si possono sollevare contro i padroni?” si informa.
Ignazio e Francesco si interrogano con lo sguardo. “Sono affamati, certo, e arrabbiati. Ma ascoltano tanto i preti, che predicano di continuo contro il socialismo”
“Ascolteranno anche voi, quando gli porterete gli ideali di libertà e di uguaglianza. Voi giovani siete la loro unica speranza. “ Cafiero è, a suo modo, un sacerdote del socialismo. Ne ha fatto la sua fede e la sua ragione di vita.
Francesco è dubbioso. “I contadini non si fidano di noi. Dicono che ci approfittiamo di loro perché abitiamo in città e lavoriamo per i padroni delle tessiture; è vero che gli danno il lavoro a domicilio, ma li pagano troppo poco.”
“Dove abiti, ragazzo?” Amilcare Cipriani era stato zitto fino ad ora. “Qua dietro, in via Garibaldi”
“Eh…Garibaldi…. l’ho conosciuto, in Aspromonte; ho combattuto con lui, da ragazzo. Di ideali non c’è bisogno, credimi. Bisogna agire, come ha fatto lui, e non pensare. Dare l’esempio! La gente non capisce le teorie, i discorsi complicati, ma capisce se uno come loro agisce con coraggio, con lealtà. Io di ideali non ne avevo, eppure…”
E racconta delle sue avventure, delle sue battaglie per la libertà anche di popoli stranieri, greci, francesi, egiziani, dei nove anni di lavori forzati in Nuova Caledonia, un posto lontanissimo, dall’altra parte del mondo, dove è quasi morto ma non si è piegato.
Francesco è incantato, Ignazio un po’ meno; a lui questi due sembrano un po’ matti, soprattutto Amilcare, quello con il naso curvo, la faccia smunta e gli occhi spiritati. Non sa se crederci o no, se prendere sul serio questi uomini che predicano la rivoluzione alle sei del mattino in una locanda di provincia. Forse per quello li hanno assolti al processo: sono dei buffoni, ma non davvero pericolosi. Più da manicomio che da rivoluzione.
“Gli amici della Società operaia non ci crederanno…”
“La società operaia è un imbroglio! E’ un modo per i padroni, per gli uomini dei ceti dirigenti di tenere a bada i lavoratori; fan finta di aiutarli, di volere il loro bene, ma in realtà il loro scopo è solo tenerli lontani dalla politica, dai conflitti.. Che stian buoni, che non diano troppo fastidio. E soprattutto che continuino a lavorare. Un contentino ogni tanto, ma zitti e sottomessi.”
La porta si apre, entra un refolo d’aria gelida insieme a un paio di avventori infreddoliti.
“Operai e contadini devono parlarsi, agire insieme!” attacca Cafiero, ma Cipriani si alza. “Andiamo, và!” Se Carlo non perde occasione per catechizzare ogni mente aperta che incontra, a lui parlare non piace mica tanto. E poi devono prendere il treno per andare a Roma. Non sanno che il congresso a cui sono diretti sarà rinviato, che Cipriani verrà arrestato a Rimini, dove voleva incontrare il padre in fin di vita, e Cafiero dovrà espatriare di nuovo. In manicomio ci finirà davvero, qualche anno dopo, per non uscirne più.
Gli imprevisti della vita ci trasformano nelle persone che siamo destinate a diventare. L’incontro casuale fertilizza un seme già piantato nella mente di Francesco: la giustizia sociale, un ideale che dà senso alla vita, si propaga in questi anni in Europa, come polline portato dal vento. Francesco si avvia leggero verso la cascina di Pietrin, la testa un turbine di parole.
Cinque del mattino. Due ombre si staccano dalla lunga fila di carri partiti nelle prime ore del giorno dalle colline e dal lago per portare merci e derrate in città, a Milano.
Seregno è tappa obbligata prima di affrontare l’ultimo tratto di strada; una sosta veloce, anche solo per abbeverare i cavalli. Pochi lampioni illuminano le strade, una delle prime novità dopo l’unità d’Italia; prima, sotto gli austriaci, il buio favoriva furti e sottrazioni, in questo luogo di commercio e traffici non sempre chiari, incluso il contrabbando dalla Svizzera: forse da qui deriva il detto che un seregnese quando si sveglia ha già imbrogliato sette persone.
Il Longoni, proprietario della Locanda dell’Angelo, non fa una piega quando entrano i due sconosciuti. E’ abituato a non fare troppe domande. Gli uomini si siedono all’angolo, vicino al camino, avvolti nei mantelli scuri appena coperti da una brina lieve che scompare presto al tepore del fuoco.
Francesco Mariani non li nota neppure quando entra e si accosta al bancone, gli occhi ancora appannati di sonno. “Già in giro, Francesco?” Ignazio Longoni ha vent’anni e dà una mano in locanda nelle ore morte, prima di andare al lavoro in filanda. “Ho da fare le consegne in cascina. Ma dammi qualcosa di caldo, và, che la strada è lunga. E speriamo che il Pietrin mi paghi, stavolta”
“Eh, sì… fan fatica i contadini di questi tempi.. Ne sono arrivati altri, in filanda; lasciano i campi alle donne” Giustappunto un paio di loro, appena entrati, raccontano dei prezzi del grano che continuano a scendere, della malattia della vite, dei padroni che chiedono ai fittavoli sempre più giornate di lavoro gratuito e polli e uova, per compensare il calo delle rendite agrarie. In cascina si sta sempre peggio e qualcuno pensa anche di emigrare. Per esempio in America, che esporta cereali a basso costo ed importa esseri umani. Milioni di europei sono partiti, da metà secolo a oggi.
Presto i due sconosciuti si infilano nel discorso; parlano a bassa voce, con un accento diverso, mai sentito da queste parti.
“Niente cambierà davvero finché i contadini saranno schiavi dei padroni” dice quello con la barba e gli occhialini rotondi. Francesco si beve ogni parola, mentre Carlo Cafiero descrive l’avventura di quattro anni prima a San Lupo, la cattura, il processo e l’assoluzione che descrive come una vittoria dell’ideale anarchico.
“Com’è da queste parti? I contadini si possono sollevare contro i padroni?” si informa.
Ignazio e Francesco si interrogano con lo sguardo. “Sono affamati, certo, e arrabbiati. Ma ascoltano tanto i preti, che predicano di continuo contro il socialismo”
“Ascolteranno anche voi, quando gli porterete gli ideali di libertà e di uguaglianza. Voi giovani siete la loro unica speranza. “ Cafiero è, a suo modo, un sacerdote del socialismo. Ne ha fatto la sua fede e la sua ragione di vita.
Francesco è dubbioso. “I contadini non si fidano di noi. Dicono che ci approfittiamo di loro perché abitiamo in città e lavoriamo per i padroni delle tessiture; è vero che gli danno il lavoro a domicilio, ma li pagano troppo poco.”
“Dove abiti, ragazzo?” Amilcare Cipriani era stato zitto fino ad ora. “Qua dietro, in via Garibaldi”
“Eh…Garibaldi…. l’ho conosciuto, in Aspromonte; ho combattuto con lui, da ragazzo. Di ideali non c’è bisogno, credimi. Bisogna agire, come ha fatto lui, e non pensare. Dare l’esempio! La gente non capisce le teorie, i discorsi complicati, ma capisce se uno come loro agisce con coraggio, con lealtà. Io di ideali non ne avevo, eppure…”
E racconta delle sue avventure, delle sue battaglie per la libertà anche di popoli stranieri, greci, francesi, egiziani, dei nove anni di lavori forzati in Nuova Caledonia, un posto lontanissimo, dall’altra parte del mondo, dove è quasi morto ma non si è piegato.
Francesco è incantato, Ignazio un po’ meno; a lui questi due sembrano un po’ matti, soprattutto Amilcare, quello con il naso curvo, la faccia smunta e gli occhi spiritati. Non sa se crederci o no, se prendere sul serio questi uomini che predicano la rivoluzione alle sei del mattino in una locanda di provincia. Forse per quello li hanno assolti al processo: sono dei buffoni, ma non davvero pericolosi. Più da manicomio che da rivoluzione.
“Gli amici della Società operaia non ci crederanno…”
“La società operaia è un imbroglio! E’ un modo per i padroni, per gli uomini dei ceti dirigenti di tenere a bada i lavoratori; fan finta di aiutarli, di volere il loro bene, ma in realtà il loro scopo è solo tenerli lontani dalla politica, dai conflitti.. Che stian buoni, che non diano troppo fastidio. E soprattutto che continuino a lavorare. Un contentino ogni tanto, ma zitti e sottomessi.”
La porta si apre, entra un refolo d’aria gelida insieme a un paio di avventori infreddoliti.
“Operai e contadini devono parlarsi, agire insieme!” attacca Cafiero, ma Cipriani si alza. “Andiamo, và!” Se Carlo non perde occasione per catechizzare ogni mente aperta che incontra, a lui parlare non piace mica tanto. E poi devono prendere il treno per andare a Roma. Non sanno che il congresso a cui sono diretti sarà rinviato, che Cipriani verrà arrestato a Rimini, dove voleva incontrare il padre in fin di vita, e Cafiero dovrà espatriare di nuovo. In manicomio ci finirà davvero, qualche anno dopo, per non uscirne più.
Gli imprevisti della vita ci trasformano nelle persone che siamo destinate a diventare. L’incontro casuale fertilizza un seme già piantato nella mente di Francesco: la giustizia sociale, un ideale che dà senso alla vita, si propaga in questi anni in Europa, come polline portato dal vento. Francesco si avvia leggero verso la cascina di Pietrin, la testa un turbine di parole.